La rivolta di Reggio Calabria è uno dei moti di protesta più significativi della
storia dell’Italia unita, per durata e intensità: diversi mesi di guerriglia urbana e di
repressione poliziesca, con frequente uso del tritolo e delle armi da fuoco, centinaia
di feriti e cinque morti.
Essa fu innescata nel luglio 1970 dalla disputa tra Reggio e Catanzaro per il titolo
di capoluogo del nascente ente Regione, che ne fu l’imprescindibile motivo
originario. La rivendicazione reggina fu sostenuta con riunioni, comizi, cortei e
scioperi, promossi da esponenti locali della Democrazia cristiana, alla guida del
Comune e della Provincia. Accanto a essi si schierarono progressivamente membri
dei partiti laici di governo, del Movimento sociale italiano, del sindacato e
dell’associazionismo (cattolici, in particolare) e della Chiesa. Il Partito socialista
italiano e il Partito comunista italiano, pur con qualche dubbio, non aderirono alla
protesta, basata su un trasversale senso di appartenenza territoriale che assunse la
forma di blocco socio-politico localistico.
La rivolta e i fatti di sangue
L’ordine pubblico a Reggio Calabria fu posto fortemente in crisi dalla guerriglia
urbana che si scatenò, dopo i primi interventi repressivi, per diversi mesi e che
causò la morte di tre manifestanti o passanti (Bruno Labate il 15 luglio 1970,
Angelo Campanella il 17 settembre 1970, Carmine Jaconis il 17 settembre 1971) e
di due poliziotti (Vincenzo Curigliano il 17 settembre 1970 e Antonio Bellotti il 16
gennaio 1971). Durante manifestazioni collegate indirettamente alla rivolta o a
causa del clima creato da essa, morirono Giuseppe Malacaria il 4 febbraio 1971 a
Catanzaro e Giuseppe Santostefano il 31 luglio 1973 a Reggio Calabria.
1/3La crisi dell’ordine pubblico dipese soprattutto dal fatto che, per vari mesi, gli
esponenti politici calabresi e il governo nazionale di centro-sinistra, presieduto dal
democristiano Emilio Colombo, non riuscirono a trovare nessuna mediazione
capace di placare un conflitto riguardante la distribuzione di ulteriori opportunità
di crescita e di sviluppo. Soluzione che giunse solo nel febbraio 1971, con
l’assegnazione del titolo di capoluogo e della sede della Giunta regionale a
Catanzaro, la sede del Consiglio regionale e del V centro siderurgico a Reggio
Calabria, la sede dell’università a Cosenza.
Dopo qualche settimana dal principio della rivolta, la gestione del movimento per
il capoluogo era passata a vari comitati cittadini, soprattutto al Comitato
d’azione, capeggiato da un sindacalista della Cisnal locale, Francesco (detto Ciccio)
Franco, che, all’insegna del motto «Per Reggio capoluogo: boia chi molla!», rimase
egemone fino al termine. Così il tono prevalente della protesta diventò quello
antipartito, di una retorica populista critica verso la “partitocrazia”, il sistema dei
partiti nel suo complesso.
Su queste basi, delusione per lo “scippo” del capoluogo e discredito della classe
politica locale e nazionale, il Msi costruì in città uno straordinario successo alle
elezioni politiche del 1972 e un radicamento territoriale ravvisabile per diversi
decenni. Il partito di Giorgio Almirante sostenne la protesta – anche violenta – dei
reggini, senza però sconfessare la propria contemporanea vocazione d’ordine.
Il protagonismo della destra extraparlamentare (soprattutto Avanguardia
nazionale di Stefano Delle Chiaie e Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese,
ma anche Ordine nuovo di Pino Rauti) e la presenza della ’ndrangheta attestano
l’inquadramento della protesta reggina in una fase della storia italiana costellata
di misteriose trame eversive, di numerosi episodi di “strategia della tensione”.
Questo è il contesto del deragliamento del treno Freccia del Sud a Gioia Tauro il 22
luglio 1970, con la morte di sei passeggeri, l’azione terroristica con le conseguenze
più drammatiche tra le numerosissime che si verificarono fino alla manifestazione
sindacale dell’ottobre 1972. È stato ormai accertato che si trattò di un attentato,
sebbene – insolitamente rispetto al precedente di piazza Fontana del 1969 – ne fu
occultato per anni il carattere doloso. Inoltre, le risultanze giudiziarie risultano
contrastanti e incerte: ad esempio, sulla base di un’analisi storica di esse, gli
studiosi più attenti hanno escluso l’intenzione omicida dell’esplosione, che non era
stata la prima e tanto meno l’ultima tra le numerosissime – senza spargimento di
sangue – avvenute lungo il tracciato ferroviario e in città. Questi aspetti rendono
problematica la definizione della strage di Gioia Tauro quale tassello della
“strategia della tensione”, intesa come “unico piano” strategico di respiro
nazionale, indirizzato al colpo di Stato Borghese del dicembre 1970 e della rivolta
quale coerente e lineare patto di alleanza finalizzato alla strumentalizzazione della
protesta reggina, da parte della destra eversiva e della ’ndrangheta.
2/3Sempre sulla base delle ricostruzioni in sede giudiziaria, infatti, non è agevole
riscontrare una linea unitaria dell’organizzazione criminale, che comprenda le
’ndrine più importanti, e una coerente continuità nel perseguirla anche soltanto da
alcune di esse (qualche pentito ha raccontato del disimpegno di alcune famiglie e
di scontri tra affiliati collocati su opposte barricate, ecc.).
Alcuni esiti
In ogni caso, non è stato ancora effettuato un sistematico studio della carte
processuali che, per quanto riguarda i fatti cruenti di piazza si trovano
disseminate tra Potenza, Bari e Salerno (dove furono spostati i dibattimenti, in
base al “legittimo sospetto” che quello di Reggio Calabria non fosse l’ambiente più
adatto per il loro svolgimento) e, riguardo agli attentati terroristici, tra le procure
(Reggio Calabria, Milano ecc.) che si sono occupate di stragi e strategia della
tensione.
La valenza nazionale della rivolta di Reggio sta in altri numerosi visibili aspetti:
limpido esempio di protesta, nata sull’onda della grande trasformazione che anche
il Mezzogiorno attraversò tra gli anni Cinquanta e Sessanta, senza che il sistema
politico dimostrasse di saperla governare; competizione e rivalità tra territori,
secondo una logica localistica, dominante i rapporti politici tra periferia e centro,
incurante di progetti di sviluppo coerenti, come avviene tuttora con la
proliferazione delle nuove province e di piccoli e grandi particolarismi; eccezionale
crisi dell’ordine pubblico, con pesanti conseguenze nel rapporto tra cittadini e
Stato; affermazione su basi di massa di una retorica populista avversa ai partiti,
che oggi chiameremmo “antipolitica”, che mostrò anticipatamente una crisi di
consenso del sistema politico repubblicano.
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